LA ROSA SEPOLTA
Quick Overview :
Un Paese immaginario è appena uscito da una guerra lunga e sanguinosa, nel corso della quale eserciti e milizie irregolari hanno addestrato bande di bambini soldato – vittime di un sistema di violenza e ferocia che ha fatto di loro dei “piccoli diavoli” – a compiere truci e crudeli azioni in seno alla popolazione civile per diffondervi il terrore. Uno di loro, Sergio, ormai senza casa e senza famiglia, vaga per il Paese in una sorta di solitaria fuga dall’atrocità, e sembra trovare pace in un piccolo centro di montagna, dove la giovane proprietaria di una fornace, Angela, che è mossa da una caparbio desiderio di riscatto e giustizia dagli orrori della guerra, gli offre un lavoro. Tra i due si stabilisce a poco a poco un rapporto di reciproca attrazione e ammirazione, ma nelle ambiguità della ricostruzione post-bellica – fra traffici d’armi, ex miliziani a piede libero e vecchi e nuovi profittatori – il passato torna a bussare con forza alla porta, e Sergio dovrà intraprendere un percorso doloroso e fare i conti con le responsabilità del passato.
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UN SECULU DI STORIA
Il racconto di Salvatore D’Agostino si svolge su due livelli: la storia di quotidiana rassegnazione e codardia di un piccolo commerciante, rovinato dalla mafia e la rappresentazione di un’intensa poesia di Buttitta sui mali endemici della Sicilia. Le due storie s’intrecciano veloci, quasi un botta e risposta che affascina il lettore.
D’Agostino usa stili diversi nell’affrontare i racconti paralleli: espressionista, geometrico, essenziale in quello del commerciante, cui l’uso drammatico dei neri, i volti deformati, le prospettive falsate conferiscono una dimensione quasi onirica; più pittorica, i neri sgranati, l’impaginazione veloce, le vignette che si accavallano quasi a rincorrersi, nella rappresentazione della poesia. Quest’ultimo è l’aspetto che colpisce maggiormente: l’autore è riuscito a rendere l’urgenza dell’estro creativo, il rincorrersi di quelle vignette come il crescendo drammatico delle parole di Buttitta.
FUORI GIOCO
«Nell’anno 075 i massimi organismi dirigenti decisero di sopprimere il pallone. Da quel momento l’entrata del giocatore stesso nella porta avversaria valse una rete… Il nome calcio scomparve: non si addiceva più al nuovo gioco… Credo di essere rimasto uno degli ultimi a ricordarmene…»
Così si racconta Stan Skavelicz, l’anziano telecronista sportivo che commentò l’ultima partita, il giorno in cui il calcio morì.
Ora un’emittente televisiva gli ha commissionato un servizio su quell’antico sport e lui, costretto a un doloroso viaggio tra i ricordi, fruga tra documenti e immagini d’archivio.
Ambientato in un futuro prossimo, lo spendido racconto di Patrick Cauvin, illustrato da Enki Bilal, fa riflettere su un tema di tragica attualità… con un filo di speranza.